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In occasione dell'ultima gara di campionato in programma domenica, Alberto Tonut appenderà le scarpe al chiodo (dal Piccolo odierno)

L’ALA TRIESTINA ORA A MONFALCONE SI CONGEDERÀ AFFRONTANDO GORIZIA

Tonut si ritira: «Domenica l’ultima partita»

Alberto lascia a 47 anni, di cui 30 sul parquet da protagonista. «Il mito? Rich Laurel»

di ROBERTO DEGRASSI

TRIESTE Stavolta è arrivato davvero il momento. A 47 anni, di cui 30 spesi sui parquet di mezza Italia, Alberto Tonut dice basta. Scenderà il campo per l’ultima volta domenica: Falconstar-Gorizia, derby di B2. Il dopo è tutto da scrivere. «Mi piacerebbe restare nell’ambiente. Ho una tessera da allenatore in tasca ma almeno inizialmente vorrei un ruolo da assistente per lavorare con i giovani». Nel frattempo si farà le ossa in famiglia. «La mia eredità cestistica la voglio lasciare a mio figlio Stefano. Ha 16 anni. Gioca play, meglio così: nessun paragone».

La Polifunzionale di Monfalcone sarà dunque il capolinea di un viaggio iniziato 30 anni fa e che ha attraversato luoghi e momenti della storia del basket italiano.

Prima tappa: anni ’70 e un ricreatorio, come per tanti ragazzi triestini. Primo canestro nel piazzale del «Giglio Padovan», sotto l’occhio smaliziato di Franco Stibiel.

Tutto è cominciato lì. E nel mio ricreatorio sono tornato anche quand’ero già giocatore di A. Un’estate arrivò a Trieste una selezione di stelle della Nba. Portammo Kevin McHale, una leggenda dei Boston Celtics, in via Settefontane. Per un paio di giorni lo scorrazzai in giro per Trieste con la mia Ritmo. Un incontro di cui mi restano un magnifico ricordo e le sue scarpe di gioco.

Seconda tappa: Alabarda, la prima squadra vera. Serie C a 17 anni.

Quante trasferte in treno. Ero il ragazzino accanto ai grandi. C’erano Dalla Costa, Palombita, Falconetti... Per me i miti erano loro e quelli del Lloyd Adriatico e della prima Pallacanestro Trieste. Pozzecco, Bubnich, Jacuzzo, Meneghel. E che curiosità per i primi giocatori provenienti da fuori: Baiguera e Pirovano. Ron De Vries, che andavo a vedere a Chiarbola, era per me l’America. Ero soprattutto un tifoso. Andavo con l’Alabarda ad affrontare Verona o Vicenza, ma per me era come se andassi a New York. Una magnifica esperienza, con grande rispetto per il mio allenatore, Bruno Cavazzon.

Terza tappa: 1979, finalmente è Hurlingham. Significa basket al piano di sopra, dove gli stranieri non sono più gli eroi di un teenager, ma i compagni di squadra.

E che stranieri... Rich Laurel, il mito. Ci avevo giocato contro l’anno prima in amichevole, ora eravamo nella stessa squadra. Era un altro basket rispetto ad adesso. Noi eravamo 8 muloni e due americani. Ora la proporzione si è capovolta. Non c’era ancora il tiro da 3 punti che, benedetta invenzione, mi avrebbe poi permesso di allungare la carriera. Il limite per andare al tiro era di 30 secondi, non di 24. E con un allenatore come Dado Lombardi nessuno si azzardava a tirare prima del venticinquesimo secondo. Ma io ringrazierò Lombardi per tutta la vita: ha avuto il coraggio di mettermi in campo a 18 anni.

Quarta tappa: 1983, Nantes, Francia. L’Italia vince per la prima volta gli Europei. A fare festa c’è anche Alberto Tonut.

Avevo esordito in Nazionale il 18 novembre 1981, a casa mia a Chiarbola. Non avrei potuto sognare un debutto migliore. Il c.t. Sandro Gamba mi vedeva di buon occhio, giocavo ala piccola e non c’era troppa concorrenza. Ma quell’Europeo lo vinsi in modo fortunoso. Dovevo essere la riserva a casa. Venni convocato in extremis perchè Solfrini si infortunò. Una sera suonò il telefono a casa mia. Rispose mia madre: ’Alberto, c’è un certo signor Rubini per te’. ’Ma no mamma, è uno scherzo, mi hanno appena lasciato a casa’. Invece il giorno dopo mi trovavo in aeroporto insieme a Meneghin, Riva, Caglieris. Avevo i capelli lunghi: e chi se l’aspettava di andare agli Europei, io ero pronto per fiondarmi a Barcola...»

Nuova tappa nell’84 a Livorno, in una squadra che negli anni costruì un miracolo e nell’89 si vide scippare uno scudetto con il canestro di Forti inspiegabilmente annullato.

A metà dell’ultimo campionato con Trieste seppi che mi avevano venduto. Il club era in difficoltà e doveva fare cassa, però avrei preferito se mi avessero chiesto dove volevo andare. C’era anche Milano tra le pretendenti. Invece mi ritrovai a Livorno, dove peraltro ho vissuto anni bellissimi. A Milano finì Premier che lì vinse tutto. Era la grande Milano di McAdoo, D’Antoni, Meneghin, Pittis, Dan Peterson e Casalini. Ancora oggi mi chiedo: se quel maledetto tiro all’ultimo secondo anzichè da Forti per Livorno fosse stato fatto da Premier per Milano, sarebbe stato annullato ugualmente? Mi restano comunque tanti bei ricordi. In semifinale eliminammo la Virtus Bologna di Brunamonti, Richardson e Villalta.

Ma il ciclo di Livorno finì con lo choc dello scudetto sfumato. Si profila una nuova fermata del lungo viaggio. Cantù, 1991. Tonut non è più il golden boy di qualche anno prima e sta anche cambiando ruolo.

Mi ritagliai un ruolo a metà strada tra l’ala piccola e l’ala forte. Perfezionai il tiro da tre punti e riuscii a convincere Messina a richiamarmi in azzurro a 31 anni. Quando arrivai in Brianza i tifosi erano scettici. Marzorati si era ritirato, l’idolo Pessina era finito con gli odiati rivali milanesi. Ma dopo un mese dal mio arrivo la curva cantava «Cucù, Pessina non c’è più, noi abbiamo Tonut».

Il viaggio prevedeva anche un ritorno a casa: 1994, Trieste prova a rinascere sulle rovine della Stefanel.

Cantù era retrocessa e io avevo disputato una stagione da 15-16 punti di media. Avevo buone richieste. Mi telefonava Scariolo per portarmi alla Fortitudo Bologna. Ma io mi ero operato a una spalla, non potevo essere pronto per l’inizio della A1. Ed erano 10 anni che mancavo da casa. Scelsi di tornare a Trieste. Solo ora posso dire che non andò bene, ma quella volta pensavo di aver fatto la scelta migliore. Con un organico risicato sfiorammo la vittoria in Coppa Italia: è stata la soddisfazione più bella vissuta con la maglia triestina. In tre anni dovetti fare il conto con 4 brutti infortuni. Nell’ultimo campionato arrivarono Darnell Robinson, Herriman, potenzialmente buoni giocatori eppure quell’estate anticipai ai dirigenti: attenti, rischiamo di retrocedere. Mancava un play e Steve Burtt non avrebbe mai potuto esserlo. Tutti volevamo giocare di squadra, anche nello staff c’era chi aveva condiviso da giocatore quella filosofia. Eppure Burtt continuò a fare i suoi 30 punti con 35 tiri, allenandosi 20 minuti il venerdì pomeriggio. E noi retrocedemmo. Ero il capitano, ma a metà torneo mi vennero tolti i gradi. Divenni il capro espiatorio. Era ora di cambiare aria.

Da Trieste a Gorizia, concorrente diretta per la promozione in A1.

Una destinazione voluta. C’era un allenatore, Frates, che voleva risalire tra i big, qualche altro vecchietto come Antonello Riva, giovani forti come Sidney Johnson e Mian, il mio amico Pol Bodetto e due stranieri tosti come Cambridge e Gray. Non avrei neanche voluto disputare i derby contro Trieste e invece mi ritrovai a giocarne una decina tra tornei, Coppa Italia. L’epilogo: i play-off. Vinse Gorizia e mi presi la mia rivincita sul campo.

Due anni a Gorizia, un passaggio allo Jadran, quattro stagioni a Caorle ed eccoci al capolinea. Monfalcone.

Non posso che ringraziare la Falconstar. È stato Nello Laezza a prospettarmi un anno a Monfalcone, ci ho pensato un po’ su e poi mi sono imbarcato in questa sfida. Dovevamo salvarci, abbiamo sfiorato i play-off. Sono rimasto in campo 15 minuti di media. Le cifre? A 47 anni cosa importano...

Tonut sfoglia i ricordi insieme alle pagine del libro che ha scritto con Severino Baf («Non ho ancora chiesto time-out») devolvendo il ricavato in beneficenza. Non vuole ancora pensare a una partita di addio. «Oddio, e dove dovrei giocarla? Ho girato tanti di quei posti trovandomi bene. E poi come farei a convocare tutti?». Basta la richiesta di abbozzare una personale top ten dei compagni di squadra a metterlo in imbarazzo. «Tra gli stranieri Jeelani, Restani, Alexis, Binion, Laurel, Wayne Robinson, tra gli italiani il mio amico Ritossa, il maestro Gianni Bertolotti, Meneghel, a Livorno Fantozzi, Forti, Carera, a Cantù Bosa, Rossini, Gilardi, a Gorizia Riva, Polbo e Mian. Ma sono affezionato anche a tanti altri, come Mauro Ciuch: all’Hurlingham non giocava mai, ma era quello che subiva i cazziatoni più feroci da Lombardi».

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