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[EDITORIALE] Peter Sauer, il ricordo di un "gregario" spentosi troppo presto


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In circostanze tragiche come questa, fare della mera retorica con annessi discorsi strappa-lacrime lascia decisamente il tempo che trova. Ma, che si tratti di un super-campione acclamato dalle folle o di un semplice “gregario”, di cui magari molti non ne avranno mai sentito parlare o magari non hanno ricordi vivissimi impressi nella mente, una vita che vola via merita un ricordo affettuoso. Specie se quel gregario lo avevi potuto conoscere quando aveva vestito la maglia della squadra della tua città.

Diciamolo senza mezzi termini: ai più, il nome Peter Sauer potrebbe non dire nulla. L’originario di S.Louis, con un passato collegiale a Stanford, non ha lasciato il segno nella sua brevissima carriera agonistica. Ma, ai tempi di quella Telit Trieste che scommesse su di lui 12 anni fa, ciò che ne uscì fu l’immagine di un ragazzotto con tanto entusiasmo, seppure i mezzi fisici fossero assolutamente nella media: e forse, a distanza di più di un decennio, quell’assoluta “normalità” ti risuona nelle orecchie come qualcosa di eccezionale, che magari cestisti più acclamati (e con bagagli tecnici decisamente più sopraffini) non riusciranno mai a trasmettere.

Nella parentesi giuliana della stagione 2000/01, Sauer non brillò per cifre realizzative. Lo fece invece per una serie di prodezze dell’ultimo secondo che tanto significarono nel computo di un campionato che stava decisamente prendendo una brutta piega per Trieste. Anche grazie all’ala americana, quella Telit salvò la baracca con massima categoria annessa: il derby vinto a Udine, con la palla rubata a pochi secondi dal termine per il contropiede vincente ad ammutolire un “Carnera” stracolmo di bandiere arancioni, oppure quel tap-in in casa contro Rimini a fil di sirena, furono due episodi che lo portarono in orbita. Per Peter non ci furono poi tanti altri momenti di grazia, ma per una compagine costruita inizialmente a “pane e salame” (poi perfezionata con nomi eccellenti, come Gurovic e Bazarevitch) quel tipo di vittorie rappresentava lo zenit della felicità della tifoseria. E Sauer, indiscutibilmente, ne fece parte.

A 35 anni, con moglie e tre figli che in questi giorni ne piangono la dipartita, Pete se ne è andato facendo quello che ha sempre amato fare: giocare a basket. Un mondo che fu costretto giocoforza ad abbandonare per problemi fisici, con questi ultimi che ne hanno stroncato la giovane vita: un corollario di eventi legati tra loro che danno l’idea di come il destino crudele troppo spesso si accanisca contro chi fa sport, qualsiasi sia il livello.

A Sauer, e a chi come lui ci ha lasciato davvero troppo presto, va il nostro pensiero più caro: affinchè il ricordo, al contrario della vita, non si spenga mai.

Ciao Peter. E grazie.

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